Sie haben das Recht zu schweigen. Henryk M. Broders Sparring-Arena

Henryk M. Broder

23.03.2003   12:02   +Feedback

La via tedesca

Enrico Brachiale

Tre o quattro volte all’anno i tedeschi si fermano in raccoglimento e rivisitano la propria storia. Il 27 gennaio per ricordare la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, il 17 giugno per ricordare la rivolta operaia a Berlino Est, il 13 agosto per ricordare la costruzione del Muro, il 9 novembre per ricordare la caduta del Muro e la fine della Rdt.

Enrico Brachiale

Enrico Brachiale

In maniera informale viene però commemorato anche qualche altro evento, come la capitolazione dell’8 maggio 1945 e l’autodafé del 10 maggio 1933, il giorno in cui in tutto il Terzo Reich i nazisti “diedero alle fiamme” gli scritti di autori ebrei, liberali e socialisti, da Freud a Marx, da Thomas e Heinrich Mann a Lessing e Kafka. Ovviamente l’autodafé “centrale” ebbe luogo a Berlino, nelle immediate vicinanze dello Stadtschloß, dove vennero bruciati ventimila libri. In occasione del 60° anniversario dell’autodafé il Senato di Berlino ha bandito un concorso per un monumento dedicato alla memoria di quel rogo. Un anno dopo (tempi sorprendentemente brevi per Berlino) sulla piazza nella quale vennero distrutti i libri, l’odierna Bebelplatz, è stata inaugurata una biblioteca virtuale, uno spazio sotterraneo di circa dieci metri per dieci, pieno di scaffali vuoti che potrebbero ospitare circa ventimila volumi. Uno spazio non frequentabile, che si può vedere soltanto dall’alto, attraverso una lastra di vetro inserita nel fondo stradale. Progettata dall’israeliano Micha Ullman, questa “biblioteca” è forse il monumento commemorativo piú intenso e toccante che sia stato creato negli ultimi anni, non solo a Berlino, per ricordare i misfatti compiuti dai nazisti. All’osservatore toglie letteralmente il respiro, senza tuttavia prevaricarlo a livello emotivo o intellettuale. Però presenta tre gravi deficit: è troppo sobrio, è frutto di un’attenta riflessione e non è costato abbastanza.

Senonché, la grettezza che impera al Senato e nell’amministrazione di Berlino si coniuga piuttosto con la pomposità, con la retorica del mito e con costi elevati. Un monumento va bene solo se bisogna guardarlo una decina di volte prima di intuire che cosa potrebbe rappresentare. A quel punto gli addetti ai lavori possono partire alla grande e dai committenti vengono trattati con rispetto. Come i due architetti Daniel Libeskind e Peter Eisenman: il primo, a Berlino, ha già eretto un monumento a se stesso, il secondo è in procinto di farlo. Libeskind originariamente intendeva comporre un’opera musicale (l’avesse fatto!), ma poi ha cambiato idea e ha progettato lo Jüdisches Museum, il Museo Ebraico, pieno zeppo di metafore e simboli - pavimenti obliqui, pareti inclinate, sale buie - che ai visitatori devono venir accuratamente spiegati perché possano provare il giusto sconvolgimento interiore. Ciò vale anche per la pianta dell’edificio, una stella di David schiacciata e distorta. Ma questa “decostruzione” dell’antico simbolo si coglie soltanto sorvolando il museo ad un’altitudine di 300 metri, cosa che solo pochi visitatori hanno la possibilità di fare. Piuttosto si fanno rinchiudere nella Torre dell’Olocausto e rabbrividiscono pensando che così doveva essere stato allora, durante le deportazioni. Per contro, il Museo non è costato poco, 120 milioni di vecchi marchi, e una volta ultimato ci si è accorti che non disponeva di un numero sufficiente di toilettes e che l’impianto di condizionamento aveva una portata d’aria insufficiente. Ragion per cui si sono dovuti investire altri 10 milioni di marchi per le opere di completamento.

Il monumento dedicato alla memoria dell’Olocausto, che l’architetto newyorchese Peter Eisenman, su incarico del Senato e di un comitato di quartiere, costruisce tra la Porta di Brandeburgo e quello che fu il bunker del Führer, non costerà piú di 27 milioni di euro, ma chi conosce la situazione berlinese sa che preventivi del genere vanno presi con le pinze. Il progetto di Eisenman è a sua volta caratterizzato da un complesso quanto enigmatico simbolismo, legato per esempio al numero dei parallelepipedi in porfido utilizzati: 2.000 parallelepipedi significano qualcosa di completamente diverso da 4.000 parallelepipedi: a seconda dell’intento, sono da interpretare come campo di tombe o come installazione da visitare. I significati sono estremamente variabili.

Ullman non può reggere il confronto. La sua “biblioteca” è costata solo poco meno di 500.000 marchi, cioè un’inezia, e immediatamente si capisce quel che simboleggiano gli scaffali vuoti, nessuno ha bisogno di particolari istruzioni per sentirsi sconvolto.

L’autodafé continua a sortire i suoi effetti a tutt’oggi, anche se nel frattempo gli scaffali delle librerie sono tornati a riempirsi. A differenza dello Jüdisches Museum o del previsto monumento dedicato alla memoria dell’Olocausto, quello di Ullman non è è un monumento adatto a deporre corone, pronunciare discorsi ufficiali o ricevere ospiti di Stato. Sicché ora, intorno ad esso e sotto di esso, si prevede di costruire un autosilo. Perché no, dicono i fautori del progetto, la gente deve pur mettere da qualche parte la macchina, e che lo faccia lì o cento metri piú in là è la stessa cosa. A nessuno verrebbe però in mente di costruire un parcheggio sotterraneo sotto la Porta di Brandeburgo. E chi a Weimar proponesse uno scavo del genere sotto il monumento dedicato a Goethe e Schiller, con rampe che lo avvolgessero a destra e a sinistra, al municipio non verrebbe assunto neanche come usciere. Neppure i “suonatori di Brema” accetterebbero una grettezza del genere. Ma a Berlino quel che conta sono proprio la grettezza e l’insensibilità, poiché la città è al verde e non si vogliono irritare gli investitori.

In fondo, che cosa sarà mai un luogo storico come la piazza dell’autodafé al confronto di un redditizio parcheggio sotterraneo? È sufficiente che tre o quattro giorni all’anno si tengano bei discorsi commemorativi e si facciano altisonanti dichiarazioni di principio del tipo: per vivere il futuro bisogna imparare le lezioni della storia. A questo punto, l’appello “Mai piú un ‘33!” non è neppure un’insulsa frase fatta: nella situazione in cui versa Berlino esso significa semplicemente: “Via libera agli scempi e all’edilizia selvaggia!”

23.3.2003

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